68 Ceppo – Lezione di Alessio Mosca: “Vestire gli ignudi”

Un estratto dalla Lezione di Alessio Mosca: “Vestire gli ignudi” dal volume “Nelle sue mani” a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi


C’è stato un periodo della storia dell’uomo in cui la nudità non destava vergogna né imbarazzo. Così come durante i nostri primi anni di vita; nell’infanzia dell’umanità la nudità era naturale.

L’uomo nasce nudo. Eppure, c’è qualcosa di osceno nella nudità, c’è una forma di ferocia nel non soccorrere un uomo nudo, nel lasciarlo umiliato e contorto a nascondere i propri genitali. Cosa ha il nostro corpo di così mostruoso da provocare tanti sforzi nel tentativo di coprirlo? Cosa c’è di così schiacciante nello sguardo dell’altro? Quale forma di indegnità nasconde la nostra carne tanto da considerare il vestire una persona nuda un gesto di misericordia?

Già Freud nel Disagio della civiltà (1929) spiega che, durante il corso dell’evoluzione, nel passaggio dall’ominide all’uomo moderno, l’acquisizione della stazione eretta rese visibili i genitali fino ad allora nascosti dall’andatura quadrupede. In quel momento i genitali divennero bisognosi di difesa dallo sguardo altrui provocando così il senso del pudore e di vergogna dell’uomo civilizzato.

Questo passaggio evolutivo è ripercorso nell’allegoria biblica de “La caduta” presente nella Genesi nel celebre passaggio della cacciata dall’Eden. Nel paradiso terrestre Adamo ed Eva vivono nudi fino a quando, con il compimento del peccato originale, prendono coscienza della differenza fra Bene e Male: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,6-7). Questo frammento descrive il passaggio da una condizione di benessere e incoscienza, quella dell’animalità, priva di raziocinio ma governata solo dagli istinti, a una di coscienza. In questo senso la nudità è simbolo di purezza e di candore mentre l’acquisizione della razionalità è legata al senso di angoscia: all’uomo “si aprirono gli occhi” e prende consapevolezza di sé stesso e della propria condizione; polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Genesi 3,19). Ha così inizio la civiltà.

Non esiste nudità in natura dal momento che non vi è consapevolezza della nudità, sostiene Derrida nel saggio L’animale che dunque sono (2002). Gli animali, nudi senza saperlo, non sarebbero in realtà nudi; l’uomo, invece, è un animale mancante, un essere cui manca la possibilità di essere inconsapevolmente svestito. Attraverso la nudità l’uomo si è sentito vulnerabile, difettoso e ha avvertito il bisogno di vestirsi, è l’unico essere vivente che ha “scoperto” la propria nudità e ha iniziato a provare vergogna di fronte allo sguardo di Dio.

Vergogna e corpo nudo si manifestano in sinergia. Adamo ed Eva si vergognano e si sentono nudi ancor prima del confronto con Dio, al solo morso si instaura la vergogna, al solo sentire i passi del Signore si nascondono. A dimostrazione che vi è uno sguardo interno che precede quello esterno. Eccolo il castigo della razionalità e dell’autocoscienza, la differenza fra l’uomo e l’animale, la necessità di lavorare per poter mangiare “con il sudore della tua fronte” (Genesi 3,19) e il partorire figli “con dolore” (Genesi 3,16). Questa è la perdita del paradiso terrestre. 

Ma vi è un altro elemento che segnala la perdita dell’animalità dell’uomo. Subito dopo essersi reso conto di essere nudo Adamo sente la voce di Dio: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Genesi 3,10). L’uomo non più animale è consapevole della sua condizione, della sua mortalità. Ha inizio la paura dell’ignoto, hanno inizio così le domande metafisiche: “Chi sono? Dove sono? Cosa c’è dopo la morte?”.

Allo stesso tempo, Adamo ed Eva si sentono guardati, compare così d’improvviso lo sguardo ammonitore di Dio, sentono due occhi severi posati su di loro. Ciò che sottende il senso di vergogna è appunto lo sguardo dell’altro: “La vergogna è un affetto primario del rapporto con l’Altro, un altro primordiale che non giudica ma semplicemente vede e dà a vedere” scrive Jacques-Alain Miller (L’orientation lacanienne. Choses de finesse en psychanalyse, 2009).

(continua)