68 Ceppo – Lezione di Ezio Sinigaglia: “Visitare i carcerati”

Un estratto dalla Lezione di Ezio Sinigaglia: “Visitare i carcerati” dal volume “Nelle sue mani” a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi


Mancavano dieci minuti alle tre quando attraversai la piazza d’armi. Il sole batteva feroce, arrostendomi la zucca sotto il cerchio del basco ma, da ponente, entravano a tratti folate lunghe e tese di un vento gelido che pungeva con aghi di ghiaccio le guance arroventate. Genova è una città che sa esserti spesso di conforto: simili contraddizioni della natura – una giornata caldissima e freddissima ad un tempo – sembrano rendere meno gravi le tue, di contraddizioni: questa, ad esempio: essere un ufficiale di fanteria e odiare le armi, le esplosioni, le guerre e la disciplina militare. 

“Enne enne” mi salutò il collega cui ero venuto a dare il cambio. La caserma è il mondo degli acronimi. “NN”, scrivendo, può essere d’aiuto: parlando, si risparmia ben poco rispetto alla formula “Nessuna novità” pronunciata per esteso. Il sottotenente De Cesari aveva fretta. Secondo lui, con quell’“Enne enne”, mi aveva passato le consegne. Raccolse le sigarette e se ne andò. Ma subito riapparve.

“Ah, dimenticavo: abbiamo un Cipièrre”.

“Ollallà, un Cipièrre! Che cosa avrà mai fatto di così grave, povero ragazzo?”

Anziché rispondermi, il collega De Cesari aggrottò le sopracciglia e disse: “Sin, tu sei troppo tenero”. Poi, soddisfatto di aver ridotto a una sigla anche il mio cognome, scomparve – questa volta – definitivamente. Rovistai fra le carte in cerca dell’informazione che non mi aveva dato. Ma squillò il telefono. E, da quel momento in poi, per un paio d’ore buone, fui vittima di una catena di angherie.

L’ufficiale di picchetto svolge per ventiquattr’ore un servizio di portierato, guardiania e sorveglianza che lo espone a enormi rischi disciplinari per non dir marziali, dei quali è quasi sempre ignaro. Per di più, proprio come un portinaio, è il punto di riferimento per chiunque, nel palazzo, abbia bisogno di qualcosa. Il suo telefono suona di continuo, anche di notte. 

Fra uno squillo e l’altro, vidi passare il sergente d’ispezione.

“Pucci!” lo chiamai.

“Comandi!” gridò lui, entrando nella mia portineria.

“Abbiamo un prigioniero, mi hanno detto.”

“Sissignore. Una Scipierre, per essere prescisi.”

“E qual è la sua gravissima infrazione?”

“Oddio, non ha fatto un bel nulla, se vòl saperlo. Non è neppure un militare.”

“Come sarebbe?”

“Non lo vòl fare, il militare. L’è – non so se diho giusto – un obiettivo!”

“Un obiettore, forse?”

“Presciso! Un obiettore di… di hoscienza. Roba da chiodi! Pure la hoscienza sci si mette!”

Mi rituffai nelle angherie.

La camera di punizione stava nascosta in fondo a un corridoio che partiva dalla stanzuccia del sottufficiale d’ispezione per addentrarsi nel cuore della muratura, e delle tenebre. Verso le cinque e un quarto, fatto un cenno al sergente, mi ci avventurai da solo. Al di là delle sbarre, nel buio della cella, brillavano tre ectoplasmi bianchi palpitanti: erano la faccia e le mani del prigioniero. Non si vedeva altro, sulle prime, venendo dalla luce. Poi distinsi il tavolaccio di legno nudo su cui stava steso.

“Ciao” gli dissi.

“Cerea” rispose lui.

“Come ti chiami?”

“Abele.”

“Un gran bel nome! E sei buono anche di fatto?”

Per un attimo si accese una quarta luce bianca nella cella: il suo sorriso.

Chiamai Pucci, e Pucci venne.

“Gli apriamo, Pucci. È inoffensivo. Gli facciamo fare l’ora d’aria.”

Come d’uso, Pucci mostrò di tollerare a fatica le stranezze che dicevo e che facevo. Tollerare, perché non poteva farne a meno. A fatica, perché non le capiva. “Lei è troppo tenero, tenente, se lo lasci dire!” mi soffiò nell’orecchio. Ma aprì la cella, e Abele venne a poco a poco in piena luce. Lo scortai fino alla mia portineria, lo feci sedere sul davanzale interno, alto e profondo, con le spalle alla finestra spalancata: nella stanza non c’erano sedie, oltre alla mia.

Per essere il primo obiettore di coscienza che avessi mai visto dal vero e non al cinema, Abele aveva questo di notevole: era insignificante. Un ragazzo di vent’anni come tanti, pallido, né alto né basso, né brutto né bello – fuorché per gli occhi spaventati –, vestito come un prete operaio, con panni scuri dozzinali, il giro bianco della maglietta che spuntava di sotto a quello nero del pullover come un collarino.

“Lo sai che cosa ti aspetta, Abele?”

Scrollò la testa su e giù per dir di sì.

“Ti farai diversi anni di galera, non so quanti. E per di più in un carcere militare. Proprio tu che il soldato non lo vuoi fare.”

“Sì, lo so.”

“Ti ammiro, caro Abele, ma ti compiango. È una scelta consapevole? Voglio dire: una scelta personale?”

Passarono dieci secondi, lunghi, lunghi, più espliciti ancora della risposta che mi diede: “Siamo Testimoni di Geova”.