Un estratto dalla Lezione di Giovanna Di Marco: “Dare da mangiare agli affamati” dal volume “Nelle sue mani” a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi
“Come nelle antiche carte geografiche sull’Africa ignota si scriveva hic sunt leones, nella carta d’Italia di Bruno Barilli […] Palermo è una città-deserto in cui si muovono “lenti e attoniti” i leoni dalla fosforescente criniera. Le sensazioni sono diventate simboli. Il deserto, e i leoni. E forse avrà operato, suggestivamente, in Barilli, la dicitura dell’autobus numero uno (allora tram): “Oreto-Leoni”. Da un fiume che non c’è più, disseccato, ingoiato dal deserto, ai leoni che al crepitio delle Pleiadi si svegliano, ma trasognati, ma stupefatti […]. Ma si sono mai svegliati altrimenti che trasognati e stupefatti, altrimenti che notturni, i leoni di questa città-deserto che è Palermo?”
Leonardo Sciascia, Palermo felicissima
I due leoni posti sui pilastri all’ingresso della Favorita si risvegliarono. Era un tardo pomeriggio di gennaio. Si chiamavano Maestà e Orgoglio. Decisero di scendere dalle alture del loro secolare riposo e di passeggiare.
Arrivarono in una lunga via con bei palazzi. La strada però era piena di sacchi dell’immondizia, presi d’assalto da grassi gabbiani, e di monopattini accatastati sui marciapiedi. Dei cani randagi ci passavano accanto e ci pisciavano sopra. Così anche i cani tenuti al guinzaglio dai loro padroni. Ma né cani né padroni sembrarono fare caso ai due leoni di pietra. Maestà e Orgoglio proseguirono lenti verso un’altra grande strada e già da lontano videro molta confusione, persone accalcate. Più si avvicinavano, più il loro numero aumentava.
Tutti parlavano di un morto, era stato un santo sulla terra. Aveva lasciato la sua comoda vita per dedicarsi ai poveri; cominciò dando da mangiare ai senzatetto della stazione, poi occupò dei locali. Aveva fatto lo sciopero della fame per ottenerli, quei locali, affinché le persone che sfamava avessero un rifugio sicuro. Da trent’anni si comportava così: se una cosa non gli stava bene, faceva lo sciopero della fame, ma si premurava comunque di non lasciare digiuni i derelitti, perché non gli bastava l’aver nutrito mille, duemila, tremila persone. La fame colpiva sempre, non c’era argine al suo dominio. Il santo si era poi ammalato e aveva a lungo sofferto.
Orgoglio e Maestà sgattaiolarono felini e marmorei tra le gambe dei presenti e videro ancora e ancora gente come moltiplicarsi: in divisa, in tunica, uomini, donne, bambini, anziani, neri, bianchi. Sentirono dei canti lontani che, a poco a poco, si facevano vicini. Alcuni issavano sulle spalle una bara di legno grezzo. Si trovava lì dentro, allora, il corpo del santo! I leoni seguirono il corteo fino a una grande chiesa. La gente era commossa e continuava a cantare. I felini rimasero sul sagrato e, quando si fece notte e fu deserto, si accucciarono sulla balaustra del recinto della chiesa e si addormentarono.
Furono svegliati che era già mattino dalla gazzarra di sirene ed elicotteri. Incuriositi, seguirono quei rumori e arrivarono davanti a un palazzo dove c’erano molte persone, come se aspettassero qualcuno. Dicevano infatti che lì stavano portando il boss che era stato catturato. Fuggiva da trent’anni, aveva ucciso anche dei bambini. Lo avevano arrestato in una clinica dove era in cura per la stessa malattia che aveva ucciso il santo.
Arrivò una macchina dalla quale uscì un uomo ammanettato, tenuto per le braccia da altri due. Dalla folla si ascoltarono insulti: “Figghio ’i pulla, cornuto, iecca ’u sangu!”. I leoni erano attoniti: Palermo, quel giorno, era il centro del mondo, perché andava in scena lo spettacolo del Bene, del Male e del loro destino.
Maestà e Orgoglio si allontanarono fino a un bar. Della gente sedeva fuori, ai tavoli. Un giovane diceva che era ridicolo che la città celebrasse un santone, che era il trionfo dei bigotti, che azioni e uomini santi non esistevano; quelli che gli stavano attorno erano tutti d’accordo con lui, tranne una donna. Gli diceva che loro non avevano fatto nulla per gli affamati; anzi, che la fame proprio non la conoscevano: pascevano sazi nelle loro ville, nei loro uffici. Perché la fame può rendere abietti, può spogliare dell’umanità, far commettere di tutto, diceva. Mai avevano digiunato, mai erano divenuti come bestie fameliche e per questo mai avevano provato il sollievo di ricevere da una mano generosa un pasto caldo che li ritemprasse e li facesse tornare di nuovo uomini. Il giovane ridacchiava e diceva che anche la storia del delinquente arrestato era tutta una pagliacciata, un vero e proprio circo.
Allora la donna si alzò incollerita e disse a quegli uomini che gli affamati erano loro se non sapevano riconoscere il Bene e il Male, la Bontà perseverante, la Giustizia che si afferma. Erano affamati di discernimento se dileggiavano ciò che gli stava passando sotto gli occhi quel giorno, a Palermo, ma non ne riconoscevano i segni, di quella fame. E non ci sarebbe stato il santo a saziarla. Poi la donna, ancora in piedi, si voltò verso i leoni, che ebbero come l’impressione che si fosse accorta di loro, così fuggirono.
(continua)