Un estratto dalla lezione di Giulia Oglialoro “Dare da bere agli assetati” dal volume “Nelle sue mani” a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi.
Stretti l’uno all’altro, i corpi affondano nel buio. Ne restano soltanto intuizioni, frammenti investiti di una luce violenta e ambrata, quasi che oltre il quadro ardesse un sole ormai prossimo a spegnersi. I toni cupi e contrastati sono la cifra inestinguibile di ogni opera di Caravaggio, ma in questo caso si addicono particolarmente al soggetto rappresentato, ovvero le Sette opere di Misericordia, il quadro commissionatogli nel 1606 dalla Congregazione del Pio Monte di Napoli. Con l’eccezione della Madonna col Bambino, nella parte superiore della tela, e dei due angeli che li sorreggono ad ali spiegate, tutte le altre figure compiono una delle opere di carità corporale, e i loro gesti risaltano vividamente nell’oscurità densa e pastosa della tela.
C’è però un personaggio che colpisce per la sua solitudine, ed è quello di Sansone, sfumato nell’ombra, in secondo piano da sinistra, rappresentato mentre beve da una mascella d’asino; la stessa mascella d’asino che, secondo il racconto biblico, usò come arma per uccidere mille Filistei, per poi vagare disperato e senza forze nel deserto e venire soccorso da Dio, che dalla dura pietra fece sgorgare un limpido gettod’acqua.
Per Caravaggio, “Dare da bere agli assetati” è, tra le opere di Misericordia, quella che più ci racconta di un rapporto esclusivo con la divinità: al contrario degli altri protagonisti del quadro, infatti, Sansone non esercita la carità verso un altro uomo, è anzi lui stesso a riceverla, miracolosamente, per opera di Dio, e come tutti i miracoli anche quello dell’acqua che sgorga ha qualcosa di terribile, come se ci parlasse, al tempo stesso, della benevolenza ma anche dell’inconoscibilità divina, della vita che scaturisce nei luoghi più ostili, ma anche della minaccia che quel rivolo ancestrale potrebbe da un momento all’altro prosciugarsi: il Dio che disseta Sansone non è poi lo stesso che nega l’acqua a suo figlio in croce?
Viziata dall’interpretazione di Caravaggio, non riesco a non vedere in questa precisa opera di Misericordia, proprio per la sua ambiguità e il suo indissolubile legame con un’alterità misteriosa, un’immagine perfetta del processo di scrittura. Chiunque scriva con serietà e dedizione sa che le parole provengono da un deserto, una zona remota e spettrale, con cui abbiamo intimità ma che non governeremo mai fino in fondo; la tecnica, l’esercizio, il duro lavoro quotidiano certo sono necessari, ma poi c’è altro, e questo altro non si esaurisce in noi, non è il frutto della sola biografia individuale, di una mera equazione tra un fatto vissuto e la sua rielaborazione. “Miracoloso” può sembrare un termine altisonante, eppure capita di incontrare parole sulla pagina che suonano necessarie come l’acqua che scaturisce in luoghi in cui la vita sembrava impensabile.
(continua)