Gabinetto Vieusseux: tre poesie inedite di Di Palmo, Piersanti e Villalta finalisti al Ceppo Poesia in esclusiva per il Premio
PASQUALE DI PALMO: tre inediti
Si addormentano sulla carrozzina
con la testa che ciondola sul petto
mentre un sole cianotico
li segna appena in fronte.
Quando si svegliano ti guardano sgomenti
senza capire chi sei,
allungano una mano per toccarti
la cintura, la mezzaluna dei fianchi,
come per accertarsi di essere
ancora vivi
in un pomeriggio qualsiasi
di un giugno sempre più arido,
gli occhi fissi sul prato,
inebetiti, velati da perenne
congiuntivite che sembra
acuirsi se torni con un gelato
qui, nel giardino dell’ospizio
di Santa Maria dei Battuti,
sito in via Spalti, Mestre,
dietro cavalcavia e cimitero.
Ti sentivo gridare dal piazzale
antistante l’entrata ospedaliera
Wanda Wandaaaaa
con la tua voce nera
che aveva esasperato i tuoi compagni
di reparto, tiritera
che cadenzava giorni
impiegati con mani
febbrili a strapparti le vesti
per tornare a quella nudità
inconsapevole d’infante
che noi tutti fingevamo,
forse colpevolmente, di ignorare.
Via Carducci
Dove sarà finita quella donna
che avanzava impettita, sempre sola,
in un’affollatissima via Carducci,
sbaffo di rossetto
in bocca di voragine
sotto le chiome
intricate come un roveto
scintillanti come un falò
forme esuberanti
in attillato paltò
mentre trascina una carrozzina
e fa le moine a una bambola
che considera, ahimè, la sua bambina?
UMBERTO PIERSANTI: tre inediti
Altrove
no, non in una foresta di simboli
questa casa
che non sai dove sia
ma fuori, fuori
da ogni plaga della memoria
anche la più remota,
da ogni storia e vicenda,
ma vera, vera
più d’ogni altro giorno,
d’ogni altra ora
che sia la più chiara
o la più cupa
qui le erbe sono le più verdi
e alte,
ondulate e morbide
dai colli scendono
alle case
il cerbiatto è lì,
poco distante,
dove l’acqua è più limpida,
alla fonte,
e tu lo guardi bere
e sei felice
dietro la casa
c’è una scala lunga
il solaio raggiunge
luminoso,
la paglia lo rischiara
fin’oltre i vetri,
no, non ci sono gli angeli
ed i cori,
ma le sorbe odorose
dentro i canestri
un canto ti raggiunge
nella luce,
tra i legni del solaio
trapela lieve,
non sai chi è la donna
che li intona
e t’entra dentro il sangue
e ti rallegra
e guardi lo scoiattolo
che sale
rapido per il tronco
e giunge al cielo
Giugno 2016
Nota: La foresta di simboli è un chiaro rimando a Baudelaire così come gli angeli a Rilke
Il passato è una terra remota
a Giulia
no, non tra rossi papaveri
e fiordalisi come l’antica
col velo dentro al quadro
ma alta sugli stivali
nel terrazzo fumi,
e non mi guardi,
poi sul gran verde stesa
quel tuo volto acceso,
e accesi gli occhi
così azzurri e persi,
sei la ninfa riversa
nell’attesa
e la tua bionda carne
m’invade e piega
passano innanzi agli occhi
le figure,
in altri tempi
e luoghi lontani
e persi, tu sotto la cascata
t’infradici i capelli
neri e sciolti
e mi sovrasti
chino sulla roccia
non conosci quei lampi,
non sai i tuoni,
dicono che i soldati
salgono su lenti
dalla marina,
lei siede alla ringhiera
contro i bei vetri,
tu non ricordi il volto,
non sai la veste,
solo quelle ginocchia luminose
che appena intravedi
fra le trine
quando la casa cambi
o la dimora,
salgono le memorie
fitte alla gola,
e se tendi la mano
quasi le tocchi,
ma il muro che le cinge
è d’aria o vetro,
nessuna forza
lo può oltrepassare
il passato è una terra remota
magari non esiste,
non sai dove
Dicembre 2016
Ruba bandiera
no, non con la gonna bianca
magari a pieghe fitte
il nastro azzurro di quegli anni
remoti,
remoti più d’ogni altra
immagine e vicenda,
ora solo ombre,
ombre le più sfocate
e sperse,
ma così morbide
e tenaci nella mente,
stava lei,
la forestiera,
dritta e stagliata
sulle torri d’Urbino
e la pineta,
con i neri calzoni
la cinta arancio
non guardo il fazzoletto,
non la raggiungo,
ma guardo lei,
lei che lo strappa
e fugge,
la più veloce,
scompare dentro il quadro
fuori dei giorni
Ottobre 2016
GIAN MARIO VILLALTA: tre inediti
inizio dalla luce il nuovo anno, provo a scriverla
con la cautela di chi muove i primi passi
una parola dopo l’altra, un respiro
in attesa che il giorno affiori
dai sorrisi
e dalle lacrime
di una folla di tempo
come dirlo e a chi
dopo che ho speso tutto il bene che mi hanno dato
e il taglio della luce incide il vetro, da fuori
le immagini – case, strada, alberi –
separate dai rumori raggiungono il segreto dell’ora
Tornato dal sogno, una tristezza leggera
e silenziosa come il sorriso di una madre
accarezzava le immagini andate
dove avevo nel sonno perduto un giorno.
Un intero giorno, non passato o futuro, ma il giorno
che stavo vivendo si andava perdendo
e io afferravo (il tempo?) e gridavo (a chi,
gridavo?) di stare qui, non portarmi dentro
quel quieto niente. Un giorno intero
svaniva e – nel sogno – niente di vita
potevo più trattenere, gridavo (che cosa?),
piangevo (per chi?) mentre non era vero,
non era finita, perché occorre un giorno
per piangere, gridare, prendere tutta la vita
Pochi secondi prima che la sveglia…
Già le auto, che dopo lo stop
accelerano in ripresa:
lacerano la stoffa
tesa
tra gli aceri della notte.
Già il tramestare, il tintinnio, lo sbattere
di là dalla parete:
il vicino e la lavapiatti – coppia perfetta –
il battibecco di ogni mattina alle sette.
Ora viene la luce, eccola!,
che la porta-finestra riquadra
e ne stampa l’impronta
lucida
sul pavimento.
E con la luce l’attesa.
Ancora un minuto, un minuto.
Che cosa aspetto, da sempre? Che cosa, anche oggi,
da quale muto ingorgo di tempo
viene a scovarmi nel giorno? Dove si annida? È il mio corpo?
Oppure è luce – che nella luce
fa spazio, luogo, misura
del giorno che cuce intorno
a me illudendomi il mondo?
È ora. Adesso. Torno
alla veglia. Entro – prima che trilli, e spilli
i nervi la sveglia – nel consueto me stesso. Quello
che lenta luce rammenda
lo sguardo, i pensieri, il tempo.