61 Ceppo – Inediti dei tre poeti Ceppo Selezione Poesia

Gabinetto Vieusseux: tre poesie inedite di Di Palmo, Piersanti e Villalta finalisti al Ceppo Poesia in esclusiva per il Premio

 


PASQUALE DI PALMO: tre inediti


 

Si addormentano sulla carrozzina

con la testa che ciondola sul petto

mentre un sole cianotico

li segna appena in fronte.

 

Quando si svegliano ti guardano sgomenti

senza capire chi sei,

allungano una mano per toccarti

la cintura, la mezzaluna dei fianchi,

 

come per accertarsi di essere

ancora vivi

in un pomeriggio qualsiasi

di un giugno sempre più arido,

 

gli occhi fissi sul prato,

inebetiti, velati da perenne

congiuntivite che sembra

acuirsi se torni con un gelato

 

qui, nel giardino dell’ospizio

di Santa Maria dei Battuti,

sito in via Spalti, Mestre,

dietro cavalcavia e cimitero.


 

 

Ti sentivo gridare dal piazzale

antistante l’entrata ospedaliera

Wanda Wandaaaaa

con la tua voce nera

che aveva esasperato i tuoi compagni

di reparto, tiritera

che cadenzava giorni

impiegati con mani

febbrili a strapparti le vesti

per tornare a quella nudità

inconsapevole d’infante

che noi tutti fingevamo,

forse colpevolmente, di ignorare.

 


 

Via Carducci

 

Dove sarà finita quella donna

che avanzava impettita, sempre sola,

in un’affollatissima via Carducci,

sbaffo di rossetto

in bocca di voragine

sotto le chiome

intricate come un roveto

scintillanti come un falò

forme esuberanti

in attillato paltò

mentre trascina una carrozzina

e fa le moine a una bambola

che considera, ahimè, la sua bambina?

 


UMBERTO PIERSANTI: tre inediti


 

 

Altrove

 

no, non in una foresta di simboli

questa casa

che non sai dove sia

ma fuori, fuori

da ogni plaga della memoria

anche la più remota,

da ogni storia e vicenda,

ma vera, vera

più d’ogni altro giorno,

d’ogni altra ora

che sia la più chiara

o la più cupa

 

qui le erbe sono le più verdi

e alte,

ondulate e morbide

dai colli scendono

alle case

 

il cerbiatto è lì,

poco distante,

dove l’acqua è più limpida,

alla fonte,

e tu lo guardi bere

e sei felice

 

dietro la casa

c’è una scala lunga

il solaio raggiunge

luminoso,

la paglia lo rischiara

fin’oltre i vetri,

no, non ci sono gli angeli

ed i cori,

ma le sorbe odorose

dentro i canestri

 

un canto ti raggiunge

nella luce,

tra i legni del solaio

trapela lieve,

non sai chi è la donna

che li intona

e t’entra dentro il sangue

e ti rallegra

 

e guardi lo scoiattolo

che sale

rapido per il tronco

e giunge al cielo

 

Giugno 2016

Nota: La foresta di simboli è un chiaro rimando a Baudelaire così come gli angeli a Rilke


 

Il passato è una terra remota

a Giulia

 

no, non tra rossi papaveri

e fiordalisi come l’antica

col velo dentro al quadro

ma alta sugli stivali

nel terrazzo fumi,

e non mi guardi,

poi sul gran verde stesa

quel tuo volto acceso,

e accesi gli occhi

così azzurri e persi,

sei la ninfa riversa

nell’attesa

e la tua bionda carne

m’invade e piega

 

passano innanzi agli occhi

le figure,

in altri tempi

e luoghi lontani

e persi, tu sotto la cascata

t’infradici i capelli

neri e sciolti

e mi sovrasti

chino sulla roccia

 

non conosci quei lampi,

non sai i tuoni,

dicono che i soldati

salgono su lenti

dalla marina,

lei siede alla ringhiera

contro i bei vetri,

tu non ricordi il volto,

non sai la veste,

solo quelle ginocchia luminose

che appena intravedi

fra le trine

 

quando la casa cambi

o la dimora,

salgono le memorie

fitte alla gola,

e se tendi la mano

quasi le tocchi,

ma il muro che le cinge

è d’aria o vetro,

nessuna forza

lo può oltrepassare

 

il passato è una terra remota

magari non esiste,

non sai dove

 

Dicembre 2016


 

Ruba bandiera

 

no, non con la gonna bianca

magari a pieghe fitte

il nastro azzurro di quegli anni

remoti,

remoti più d’ogni altra

immagine e vicenda,

ora solo ombre,

ombre le più sfocate

e sperse,

ma così morbide

e tenaci nella mente,

stava lei,

la forestiera,

dritta e stagliata

sulle torri d’Urbino

e la pineta,

con i neri calzoni

la cinta arancio

 

non guardo il fazzoletto,

non la raggiungo,

ma guardo lei,

lei che lo strappa

e fugge,

la più veloce,

scompare dentro il quadro

fuori dei giorni

 

Ottobre 2016

 


GIAN MARIO VILLALTA: tre inediti


 

inizio dalla luce il nuovo anno, provo a scriverla

con la cautela di chi muove i primi passi

una parola dopo l’altra, un respiro

 

in attesa che il giorno affiori

dai sorrisi

e dalle lacrime

di una folla di tempo

 

come dirlo e a chi

dopo che ho speso tutto il bene che mi hanno dato

 

e il taglio della luce incide il vetro, da fuori

le immagini – case, strada, alberi –

separate dai rumori raggiungono il segreto dell’ora


 

Tornato dal sogno, una tristezza leggera

e silenziosa come il sorriso di una madre

accarezzava le immagini andate

dove avevo nel sonno perduto un giorno.

 

Un intero giorno, non passato o futuro, ma il giorno

che stavo vivendo si andava perdendo

e io afferravo (il tempo?) e gridavo (a chi,

gridavo?) di stare qui, non portarmi dentro

 

quel quieto niente. Un giorno intero

svaniva e – nel sogno – niente di vita

potevo più trattenere, gridavo (che cosa?),

 

piangevo (per chi?) mentre non era vero,

non era finita, perché occorre un giorno

per piangere, gridare, prendere tutta la vita

 


 

Pochi secondi prima che la sveglia…

 

Già le auto, che dopo lo stop

accelerano in ripresa:

lacerano la stoffa

tesa

tra gli aceri della notte.

 

Già il tramestare, il tintinnio, lo sbattere

di là dalla parete:

il vicino e la lavapiatti – coppia perfetta –

il battibecco di ogni mattina alle sette.

 

Ora viene la luce, eccola!,

che la porta-finestra riquadra

e ne stampa l’impronta

lucida

sul pavimento.

 

E con la luce l’attesa.

 

Ancora un minuto, un minuto.

Che cosa aspetto, da sempre? Che cosa, anche oggi,

da quale muto ingorgo di tempo

viene a scovarmi nel giorno? Dove si annida? È il mio corpo?

 

Oppure è luce – che nella luce

fa spazio, luogo, misura

del giorno che cuce intorno

a me illudendomi il mondo?

 

È ora. Adesso. Torno

alla veglia. Entro – prima che trilli, e spilli

i nervi la sveglia – nel consueto me stesso. Quello

 

che lenta luce rammenda

lo sguardo, i pensieri, il tempo.