“Quando si scrive poesie non si soffre”. “Peste e guerra” è l’ultimo libro di Iacuzzi, raccolta di versi dal 1982 al 2022: “Molti sono dedicati ai miei maestri, e anche a Luca Iozzelli”. Intervista di Linda Meoni, “La Nazione2, 10 dicembre 2022.
La poesia non chiede comprensione. Chiede trasporto, interrogazione continua della verità, per avvicinarsi almeno un po’ a un’idea di salvezza. E il poeta? È come se fosse attraversato da un virus: “Uno scrive perché si ammala. Quando arriva la poesia, tu ne subisci l’influenza, è un altro che parla. E’ una dimensione del silenzio perché, quando si scrive, non si soffre. Il momento dello scrivere è un momento di grazia, di guarigione”. L’occasione della riflessione per Paolo Fabrizio Iacuzzi, poeta ed editor nonché direttore del Premio letterario Ceppo, la offre il suo nuovo libro “Peste e guerra. La poesia non salverà la vita” (Interno poesia, 2022), raccolta di versi scelti prodotti nel periodo 1982-2022 più alcuni inediti – come ‘Requiem’, dedicata a Luca Iozzelli –, che si arricchisce di un’ultima parte in forma d’intervista fiume condotta da Michele Bordoni a Iacuzzi.
Questo libro raccoglie quarant’anni di poesia: è per lei un bilancio?
“Lo chiamerei rilancio. Una messa in piega dei propri versi cercando quelle chiavi che possano aprire a una loro comprensione. Spesso si guarda il libro, ma non la successione dei temi che ricorrono. Come lo è per me la bicicletta, ora reale – perché la mia poesia nasce sempre da un’esperienza specifica –, ora no, al punto di parlare quasi di autofiction. Dentro ci sono tante poesie dedicate ai miei maestri, Guccini, Bigongiari, Carifi, Giudici. C’è Luca Iozzelli, che io trasformo in un mio alter ego, il signore del Ceppo”.
Quanto è difficile scrivere e fare libri, in particolare poesia?
“Chi scrive ha bisogno di trovare la propria voce. Io prima di aver fatto certe esperienze che hanno rivoluzionato la mia vita non ero pronto. Penso a quella in Caritas nel 1989, dove rimasi per due anni: da lì ho tratto un’umanità corale, un senso degli ultimi che prima non possedevo. E poi serve tempo, anche il montaggio è importante, è il risultato di una costruzione che si compie dentro di te. Una singola poesia per me ha significato soltanto se è dentro una cornice. Del resto Pistoia è la città dei racconti e della poesia in forma di racconto. Ne sono la prova le cento figure del Fregio, l’Altare d’argento in Duomo, il Pulpito di Sant’Andrea… Pistoia è la città delle narrazioni in poesia. In un mio libro futuro mi piacerebbe per esempio attraversare l’Altare d’argento, compiere un processo utile a inquadrare il mio vissuto. La poesia pensa, diceva Bigongiari, ovvero la poesia è un’esperienza sensibile e corporale. È un corpo a corpo con la mia vita, con la realtà, con gli altri che ti entrano dentro e tu elabori questa intersezione che si genera”.
A proposito di libri da scrivere, c’è già qualche indizio sul prossimo, il settimo…
“Immagino che si chiamerà ‘Fiabucce’ per sottolineare l’impossibilità di edificare delle favole. Sono l’occasione per riattraversare questa pandemia sotto gli occhi dell’infanzia e degli adulti, raccontando anche la speranza. Ecco, in qualche modo sta qui la salvezza: nella stessa sopravvivenza”.