Giancarlo Pontiggia, vincitore del Ceppo Selezione Poesia 2019, ha scritto la seconda “Ceppo Arte Natura Lecture 2019” intitolata “La poesia dei frutti d’oro” in occasione della biennale “La campagna dentro le Mura” di Buggiano Castello, presentata il 5 maggio 2019.
LA POESIA DEI FRUTTI D’ORO
di Giancarlo Pontiggia
Alle origini della nostra storia è uno dei miti più potenti dell’antichità greca, quello dei frutti d’oro che si trovavano in un giardino divino ai confini del mondo, ed erano custoditi dalle Esperidi, le sacre ninfe figlie della Notte. Questi frutti li aveva donati Gaia, la dea Terra, per le nozze di Zeus con Era. Un geografo greco di età augustea, Strabone, ci parla delle isole delle Esperidi, che sono probabilmente da identificare con quelle di Capo Verde: siamo dunque all’estremità occidentale del mondo antico, là dove tutto si perde nelle acque sconosciute e infinite dell’Oceano, e dove, secondo la tradizione, è fissato il sacro confine del cielo. Il dato che più ci colpisce nella vicenda, è il contrasto cromatico tra l’oro dei frutti e le figure femminili, che sono figlie della nera Notte: questi frutti sembrano spiccare con la loro luce contro la tavola buia di un cielo estremo e inaccessibile.
Naturalmente non sappiamo che frutti fossero quelli di cui ci parla il mito, ma sappiamo che la civiltà greco-latina non conobbe se non saltuariamente il mondo luminoso degli agrumi, che restarono pressoché ignoti fino a quando l’esercito di Alessandro Magno, verso la fine del IV secolo, di ritorno dalle terre favolose d’Oriente, non portò con sé gli alberi del cedro. E sappiamo in ogni caso che, nel momento in cui conobbero i primi frutti dei cedri, non poterono che assimilarli ai frutti d’oro dell’antica leggenda: come se il mito, nella sua remota sostanza, non attendesse altro che una conferma.
Sicuramente già nel I secolo d.C. le piante di limoni erano presenti nei frutteti e nei viridaria italici. Ce lo racconta, in particolare, una casa pompeiana, nota con il nome di Casa del Frutteto, dove una piccola camera è concepita come un vero e proprio pergolato immerso in un giardino con alberi e arbusti tra i quali volano merli, gazze, rondini e tortore. Tra piante di lauro e di mirto, palme, oleandri, ciliegi e corbezzoli, s’impone nella sua bellezza una pianta di limone ricca di frutti d’oro. Nondimeno, faticheremmo a trovare questi frutti nei versi di un poeta greco o latino dell’epoca: forse perché erano considerati – a causa della loro asprezza – frutti ornamentali, usati semmai, come ricorda lo stesso Virgilio nelle Georgiche (II, 126-128), per trarne pozioni medicinali:
La Media dà i succhi acidi,
e il sapore, persistente, del cedro,
che soccorre, e scaccia dalle membra
i neri veleni, quando
crudeli matrigne avvelenano una bevanda.
Torniamo dunque in Oriente, in Cina, anzi, dove i primi agrumi nacquero spontaneamente, per diffondersi poi in India e in Indocina, e nelle isole del vasto e proliferante Oceano Indiano. Le prime testimonianze storiche risalgono addirittura al 2.200 a.C., all’epoca dell’imperatore Ta Yu, al quale – come veniamo a sapere – le province tributarie inviavano in dono cesti di mandarini e di kumquat. Ma bisogna aspettare la fine della dinastia Chou, che dominò dal 1.027 al 256 a.C., per veder menzionate per la prima volta degli aranci, che il poeta Sung Yu, nel III secolo a.C., definì «l’albero prediletto dagli uccelli per edificare il loro nido». E dovevano passare almeno un paio di secoli per veder menzionati anche i frutti dell’arancio amaro. Quando, nel 1178 d.C., compare la prima monografia storica sugli agrumi, vergata da un prefetto della città di Wenchou, scopriamo che all’epoca già esistevano ventisette varietà di agrumi: eppure, tra di loro, non si trova traccia dei limoni, che richiedevano evidentemente un clima più caldo per attecchire, e si affermarono infatti non in Cina, ma nella penisola indocinese. Non deve dunque sorprendere se i primi componimenti poetici in cui cedri, mandarini e arance entrano in scena con la forza di una vera e propria epifania siano nati in Cina, e abbiano richiesto tanti secoli prima di attecchire nella memoria poetica dell’Occidente.
Un mandarino è al centro di questa delicata composizione di Liu Hsun, un poeta vissuto tra il 462 e il 521 d.C.:
Al mattino del primo gelo
il giardiniere lo stacca e ne fa dono:
il profumo si espande; appena schiusa,
la sua fragranza si riversa
sugli invitati.
Agli inizi dell’VIII secolo appartengono invece questi versi di Tu-fu, che dipinge due giardini di aranci con la delicatezza di un miniaturista di paesaggi incantati:
In piena primavera sugli argini di un fiume
due vasti giardini piantati con migliaia
di alberi di arancio: il loro denso fogliame
induce vergogna alle nubi; ci muoviamo
sopra la ricchezza dei petali caduti,
senza sfiorare la neve.
Presto i frutti degli agrumi cominciano ad animare, con la finezza di linguaggio e la forza di introspezione caratteristici della poesia orientale, anche i componimenti di tema erotico, come in questi versi di Tin-tun-ling, un poeta cinese vissuto fra l’VIII e il IX secolo d.C.:
Sola, nella sua stanza, una ragazza
ricama fiori di seta. Improvviso,
giunge il suono di un flauto,
lontano. Trema. Immagina
che un giovane le stia parlando d’amore.
Attraverso la finestra di carta, l’ombra
di una foglia di arancio ricade
sulle sue ginocchia. Socchiude gli occhi, pensa
che una mano le stia toccando
la veste.
Nei secoli difficili che caratterizzano l’Alto Medioevo dell’Occidente, gli agrumi cominciano ad essere coltivati solo grazie alla mediazione del mondo arabo, che introduce nella penisola iberica e in Sicilia, appena conquistate, sofisticate tecniche di irrigazione. Così Abd ar-Rahman, nato a Trapani, descrive gli aranceti di Sicilia:
Le arance dell’isola sono simili
a fiamme che razzano tra rami
di smeraldo; ma i limoni
riflettono il pallore di un amante
che ha trascorso la notte in lacrime
per il dolore della lontananza.
Fino ad ora questi frutti sono entrati nell’immaginario poetico per l’intensità della loro luce e dei loro profumi. Nel 1674 Giacomo Lubrano, uno dei più inquieti poeti del Barocco italiano, pubblica una raccolta – Scintille poetiche o poesie sacre e morali – in cui è contenuto un sonetto intitolato Cedri fantastici variamente figurati negli orti reggitani, cioè nei giardini di Reggio Calabria. Nella rappresentazione di questi cedri è come racchiuso tutto quel sentimento nuovo di instabilità e di mutevolezza che pervade il secolo della rivoluzione scientifica: quei cedri non sono più soltanto frutti, ma
Rustiche frenesie, sogni fioriti,
deliri vegetabili odorosi,
capricci de’ giardin, Protei frondosi,
e di ameno furor cedri impazziti
come se il poeta sentisse, nella materia luminosa e odorante di quei frutti, la vertigine dei moti cosmici ai quali il cannocchiale galileiano ci aveva ormai, fatalmente, esposti.
Eppure, la storia moderna della poesia dei limoni doveva ancora avere inizio, e a fondarla non poteva in fondo essere che Goethe, con quella malinconica e struggente canzoncina sulla quale si apre il Libro Quarto della Vocazione teatrale di Wilhelm Meister:
Sai la contrada ove il limone è in fiore?
Tra il verde cupo arance d’oro fulgono.
Dal cielo azzurro lieve la brezza spira
fra il quieto mirto, fra il ridente alloro.
Lo sai tu, dimmi?
Oh, laggiù, laggiù
vorrei, o mio signore, andar con te!
La contrada ove i limoni paiono perennemente in fiore è l’Italia di fine Settecento, il paese dove Mignon – la fanciulla cui nel romanzo è attribuita la canzone – vorrebbe essere portata, via dai freddi del nord, verso le terre della luce e della vita. A questi versi avrebbe fatto eco, più di mezzo secolo dopo, Gérard de Nerval, in uno splendido, ombroso sonetto intitolato Delfica (1845), nel quale la fantasia appassionata di Mignon viene inquadrata in un’architettura classica, e legata al motivo della fine del paganesimo e degli dèi antichi:
Conosci, Dafne, la romanza antica
all’ombra del sicomoro o sotto i lauri bianchi,
sotto l’ulivo, il mirto, o i salici tremanti,
la canzone d’amore che sempre ricomincia?…
Riconosci il Tempio dal peristilio immenso,
e i limoni amari che i tuoi denti mordevano,
e la grotta, fatale agli ospiti imprudenti,
dove del drago vinto dorme l’antico seme?…
Torneranno, gli Dei che tanto rimpiangi!
Il tempo riporterà l’ordine degli antichi giorni;
trasale la terra di un soffio profetico…
Ma dorme la Sibilla dal volto latino
sotto l’arco di Costantino, dorme
– e niente che disturbi il portico severo.
Ma è tempo di giungere alla nostra contemporaneità, muovendoci fra tre luoghi – Spagna, Liguria, Sicilia – in cui non sarà un caso se la poesia degli agrumi fiorisce più che altrove. Gli aranci di Machado (la poesia fu pubblicata nella raccolta Campi di Castiglia, 1913) risplendono in una piazza di metafisici bagliori, che sembra ricordare certi scorci del contemporaneo De Chirico, mentre i «gialli limoni pallidi» sono ambientati in un piccolo giardino ombroso dalle tonalità vagamente crepuscolari:
Serbo ricordi dell’infanzia,
immagini di luci e di palmizi,
e in un fulgore d’oro,
di campanili, lungi, con cicogne,
di paesi con strade senza donne
sotto un indaco cielo, piazze vuote
dove crescono aranci luminosi
coi loro frutti rotondi e vermigli;
nell’ombra d’un giardino c’è il limone
dai rami polverosi,
gialli limoni pallidi,
che l’acqua chiara della fonte specchia,
aroma di garofani e di nardi
e un forte odore di menta e di basilico.
Diversa è la scrittura – immaginosa, ardente, colorata – di Lorca, che si muove nelle pagine giovanili del Libro de poemas (1921), delle Canzoni (1927) o del Poema del cante jondo (1931) con improvvisi scatti immaginativi: ed ecco le «onde di aranci» di Elegia, o la Ballatella dedicata al Guadalquivir, «alta torre / e vento negli aranceti», o le «limonaie / di Malaga dormiente» evocate in Juan Breva. O questa canzoncina dedicata a Lola che fa il bucato, con il suo struggente ritornello:
Sotto un arancio lava
fasce di cotone.
Ha gli occhi verdi
e la voce viola.
Ah, amore,
sotto l’arancio in fiore!
L’acqua del canale
scorre piena di sole;
nell’oliveto
un passero canta.
Ah, amore,
sotto l’arancio in fiore!
Quando Lola
avrà finito il sapone
verranno i toreri.
Ah, amore,
sotto l’arancio in fiore!
Negli stessi anni, due poeti liguri legati dall’amicizia e da una poetica per tanti aspetti affine, Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale, compongono una loro personale ode alla terra dove sono nati. Ecco Sbarbaro, in una poesia scritta nel 1922, e che fa parte della raccolta intitolata Rimanenze (1955):
Io pagano al tuo nume sacrerei,
Liguria, se campassi della rete,
rosse triglie nell’alga boccheggianti;
o la spalliera di limoni al sole,
avessi l’orto; il testo di garofani,
non altro avessi:
i beni che tu doni ti offrirei.
L’ultimo remo, vecchio marinaio
t’appenderei.
Nei Limoni, seconda – nell’ordine – poesia degli Ossi di seppia (1925) di Eugenio Montale, composta negli anni 1921-1922, e dunque coeva a quelle di Sbarbaro e di Lorca, è la squillante luce dei limoni (forse la più straordinaria sinestesia della storia della letteratura di ogni tempo) a imporsi, come un talismano di felicità e di salvezza, nell’inverno di una città tediosa che pesa sull’anima del poeta:
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
E di nuovo torniamo in Sicilia. È il 1942, l’anno di Ed è subito sera, che raccoglie le poesie già edite di Salvatore Quasimodo, più un fascio di poesie nuove, la prima delle quali si conclude con un verso di memorabile contrasto cromatico:
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d’orme di cavalli, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l’airone s’avanza verso l’acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.
Varrà solo la pena di annotare che la zagara, il fiore bianco dell’arancio, deriva da una radice araba che significa “brillare, sfavillare”: ancora oro, fiamma, luce che arde.
Breve nota bibliografica
Sono debitore di molte notizie alla Storia degli agrumi di Pierre Laszlo (Donzelli, 2006) e soprattutto al bellissimo volume di Francesco Calabrese, La favolosa storia degli agrumi (L’Epos, 2004), dalla quale sono tratti, con mie varianti di traduzione, i versi cinesi e arabi richiamati nel testo. I versi di Goethe sono tratti da Romanzi, a cura di Renata Caruzzi, traduzione di Emilio Castellani (Mondadori, 1979); quelli di Machado da Poesia spagnola del ’900, a cura di Oreste Macrí (Garzanti, 1974); quelli di Lorca, infine, da Opera poetica, a cura di Carlo Bo (Guanda 1978). Mie le traduzioni di Virgilio e di Nerval.